ITE Melloni

vittorio gatti

Tutta la città piange la scomparsa del preside Gatti, figura

storica di riferimento per il mondo scolastico parmense. Ma più di tutti è in lutto il Melloni, di cui egli è stato a capo dal 1992 al 2005, lasciando in tutti quelli che l’hanno conosciuto un rimpianto vivissimo e un ricordo indelebile.
Sarebbe inutile soffermarsi sul suo stato di servizio: direbbe solamente l’apparenza ma non la sostanza di lui e della sua missione educativa. La verità è che ci manca proprio Vittorio Gatti, persona squisita, “di spessore” – come si diceva un tempo –, dalla personalità generosa e forte che rivelava in ogni occasione.
Aveva preso alla lettera una famosa “beatitudine” di San Tommaso Moro: “Beati coloro che sapranno ridere di se stessi: avranno sempre molto da divertirsi”. E al prof. Gatti l’autoironia non mancava di certo ed era anche questa sua qualità che lo rendeva così vicino alle persone. Cordiale, mai burbero, sapeva mantenere equilibrio in ogni circostanza, dosando delicatezza e severità a seconda del bisogno. Non emarginava nessuno e, anche di fronte a coloro che molti avrebbero definito “casi persi”, egli sapeva trovare il modo di dare motivazione, suggerire impegno, provocare positivamente una reazione che migliorasse chi gli stava intorno. Un grande “pifferaio magico”, insomma, come lo definisce una delle sue docenti di allora.
Forse però il suo dono più grande era quello di “leggere” le persone: non si sbagliava nell’individuare pregi e difetti di studenti, insegnanti e collaboratori in genere; aveva quello che popolarmente si chiama “occhio lungo”, cioè la capacità di vedere le cose anche là dove gli altri non le vedevano nemmeno in se stessi. Era da questa sua capacità che discendeva l’abilità nella scelta di chi chiamare vicino a sé nei gruppi di lavoro e nelle varie responsabilità che caratterizzano quelle che oggi definiamo “figure intermedie” dell’organizzazione scolastica. Lungimirante: sì, certo, il preside Gatti è stato anche questo. Chi, infatti, nei primi anni Novanta avrebbe scommesso sul nascente interesse collettivo per l’informatica? Eppure lui ebbe la capacità di istituire nella nostra scuola l’allora corso Mercurio (oggi SIA), incentrato proprio su una disciplina che era agli albori della sua diffusione di massa, ma che da lì a pochissimo avrebbe avuto significativi sbocchi anche nel mercato del lavoro.
Uomo capace di profonde relazioni, era il primo ad arrivare a scuola e l’ultimo ad andarsene. Prima della campanella dell’avvio di ogni giornata, egli era nell’atrio a salutare i ragazzi (che generalmente conosceva per nome), a condividere con loro una battuta o a tirare le orecchie ai ritardatari, docenti compresi. Anche per questo motivo conosceva tutti e con tutti aveva un dialogo aperto. Era capace di fare soggezione ma non ne “approfittava” mai, perché preferiva esercitare autorevolezza, non autorità.
Attentissimo al senso di giustizia e di equità, negli scrutini riusciva a bilanciare il suo essere istintivamente dalla parte degli studenti con la reale portata delle prestazioni scolastiche. Ma egli sapeva benissimo che gli scrutini sono solo la parte finale di un cammino ed è per questo che non sopportava che qualche alunno ci arrivasse “zoppo”, senza che nessun “prof” fosse intervenuto prima per capire che cosa gli stava succedendo: se c’erano problemi nella sua preparazione, nel metodo di studio, se qualche avversità lo stesse tenendo lontano dall’impegno scolastico, se in classe si fosse trovato bene o male, e via discorrendo. Era in questo modo che egli educava i suoi docenti a mettere lo studente al centro: non amava le ramanzine, perché preferiva mostrare lui in prima persona gli atteggiamenti da mantenere affinché l’educazione della persona andasse di pari passo con la crescita culturale dei ragazzi.
Ex docente di matematica, non perdeva l’abitudine di fare esercizi quando aveva qualche minuto; lui avrebbe detto “per ingannare il tempo”. Ma, come capitava ai grandi del nostro Rinascimento, egli si occupava di tutto il sapere, senza mai considerare la vita come una serie di compartimenti stagni messi uno accanto all’altro, poiché sapeva benissimo che una scoperta in una disciplina avrebbe aperto orizzonti nuovi in altre parti del sapere, come il famoso battito di ali di farfalla scatena proverbialmente la tempesta dall’altra parte del mondo. Era questo suo atteggiamento che lo faceva essere sempre al passo coi tempi, sempre informato di quanto accadeva a livello politico e sociale, non solo culturale o burocratico. Anche per questo intendeva la scuola come “missione” e non come “mission”: la scuola non si fonda sugli obiettivi a lungo termine come le aziende, ma sul senso di un servizio svolto con passione e “disinteresse”, cioè senza badare tanto alle questioni materiali ma puntando tutto sul senso ultimo e profondo della vita.
Lo ricordiamo con una similitudine attribuita a una sua collaboratrice di segreteria, la quale pensava di lui, delle sue parole, della sua capacità relazionale che fosse come un “sacchetto di coriandoli aperto davanti a un ventilatore”: prima o poi uno di questi piccoli pezzi di carta rimane addosso a chiunque gli stia davanti. E noi vogliamo tenerceli ancora addosso quei coriandoli, non solo per ricordare un saggio preside, ma per cercare di assomigliare in qualche modo a quella grande persona che è stato e per noi è ancora Vittorio Gatti.

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